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Cose che ho imparato nell’ultimo anno

20 aprile 2014
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Con il voto favorevole del Senato per la riforma 416ter la settimana scorsa ho coronato il lavoro di oltre 400 giorni e allo stesso tempo il successo più importante della mia vita professionale fino ad oggi (si spiega perchè non ho avuto tanto tempo per postare, ma ne è valsa la pena).

Ecco una lista di cose che ho imparato durante questi mesi:

– È più importante ciò che importante di ciò che urgente.
– Pensa sempre al di là di ciò che sembra possibile in un dato momento.
– Non si dovrebbe mai sacrificare troppo la propria vita privata
– non sempre è possibile non sacrificare la vita privata.
– Se sei a capo di un progetto quasi sicuramente non stai dando abbastanza fiducia al tuo team.
– L’80% delle volte non è mancanza di fiducia, è incapacità di delegare.
– L’80% dei risultati li ottieni in preproduzione.
– L’80% delle volte sottostimi la preproduzione perché stai facendo qualcosa di urgente.
– L’80% del lavoro è fatto dal 20% del tempo.
– Senza fortuna nulla è possibile
– every dog has his day.
– Quando ascolti della musica cerca di non pensare ad altro.
– Finisci ciò che hai cominciato
– non combattere battaglie perse.
– Non potrai mai fare nulla da solo
– con chi è simile a te potrai fare cose che altri hanno già fatto
– con chi è diverso da te potrai fare cose che nessuno ha mai fatto.
– Calm the fuck down.
– Non è vero che non hai un ora al giorno per fare sport. Se ce l’ha Obama e tu non ce l’hai, il problema sei tu.
– Chi non sa prendersi momenti di vacanza non sa vivere
– non sempre è possibile prendersi vacanze.
– L’80% dei tassisti prova sentimenti di ostilità nei tuoi confronti. Tu ricambiali
– l’amore al lavoro esiste in quantità limitata. Usalo per il tuo team.
– Si diventa vittime del successo quando lo si vive come fine
– il successo sono difese che si accumulano per quando, inevitabilmente, prima o poi infurieranno tempeste
– per quanto assurdamente violento, aspro e tragico possa essere il destino, potrebbe anche andare peggio.
– Il lavoro aiuta a modellare il destino rendendo belle cose che erano brutte ed evitabili errori che sarebbero invece stati commessi
– il lavoro sottrae un certo grado di umanità alle relazioni
– Se lavori con un team remoto usa un task manager. Cambialo ogni volta che credi sia necessario.
– Ogni volta che sai di aver sbagliato chiedi scusa.
– Avere dei nemici è inevitabile. Diffida da chi non ha nemici.
– Il tuo io è il tuo peggior nemico
– L’io degli altri è tuo alleato
– Non attaccare l’io dei tuoi nemici
– Rispetta i tuoi nemici con lo stesso rispetto che usi per coloro che ammiri
– Diventa più forte dei tuoi nemici e più bravo di coloro che ammiri.
– Incoraggia le critiche nei tuoi confronti
– Sii spietato con chi si lamenta
– Una combinazione sufficientemente vasta di soft skill costituiscono una hard skill.
– Parla con i tuoi lavori come alcuni parlano alle piante. Fagli tutte le domande che ti vengono in mente.
– Ringrazia in ordine di apparizione e non in ordine alfabetico.

Un grazie a tutti quelli che hanno reso possibile e che continuano a rendere incredibile questa avventura:

Salvatore, Leonardo D., Andrea, Valentina, Laura, G., Lele, Claudia, Leonardo F., Simonetta F., Francesca B. Federico, Manu, Silvio, Enrico, Angelo, Luigi, Laura P., Michi, Angela, Daniele, Mara, Sedef.

gli indignati son tornati

8 settembre 2013
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Qui su Shylock siamo convintamente contrari all’intervento armato occidentale in Siria. Saremo cinici, ma pensiamo che i rischi che una sanguinosa guerra civile si trasformi in un tragico conflitto regionale (e non solo) siano più che concreti. E se Assad non ci piace, ancor più dopo aver letto la sua sprezzante intervista rilasciata a Le Figaro, ancor meno ci piace quel gruppo eterogeneo dei ribelli siriani, inesorabilmente guidati da fondamentalisti sunniti. 

Ci tenevamo a questa premessa, perché quel che diremo tra poco potrebbe farci scambiare per i più sfegatati fan di Obama, per quelli convinti che l’interventismo francese sia una manna dal cielo.

Abbiamo provato un forte imbarazzo e non poco sconcerto, stasera, nel vedere le porte della nostra Cattedrale, della medievale San Lorenzo, spalancate su una folla vegliante. Ho riconosciuto volti di chi in Chiesa non entra mai, forse neppure per sbaglio. Però, questa sera era doveroso esserci, perché le guerre made in Usa sono sempre catastrofi annunciate. Il messaggio, se si va al sodo, è poi quello: 110 mila morti (stime) non sono abbastanza per indignarsi, per scendere in piazza, per entrare in chiesa, per stringersi in preghiera. Se c’è di mezzo l’America, se dalla Casa Bianca dicono di voler intervenire perché certi crimini non si ripetano, beh, allora ha senso mobilitarsi, è importante testimoniare quanto le guerre siano inutili, è indispensabile ricordare che le guerre non sono mai giuste. Sarò banale, ma quest’indignati che saltan su solo quando da Washington lanciano un proclama, avrei voluto vederli in marcia davanti all’ambasciata siriana, a protestare contro Assad. Mi sarebbe piaciuto vederli in preghiera ai primi 20 mila morti, allo scadere dei primi 6 mesi di conflitto. Avrei voluti vederli far picchetto davanti alle sedi diplomatiche occidentali, perché nessuno fino ad oggi ha fatto nulla per salvare i civili siriani. Li avrei voluti vedere protestare contro Putin, che difende e arma il Rais siriano.

E invece, l’indignazione da riflesso condizionato è tornata. E se è l’America di cui vergognarsi, allora si entra anche in Chiesa, tutti riuniti, tutti fratelli.

la favola delle istituzioni funzionanti

7 agosto 2013
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Non è infrequente in Italia che anche le conversazioni più intime e amichevoli siano infarcite di riferimenti allo sfascio della politica e alle vicende di Berlusconi. Non so perché chiacchierando ieri con una cara amica si sia passati dalla sua gravidanza alla recente condanna subita dal Cavaliere. “Berlusconi, in questi venti anni – diceva lei – ha pervertito le regole del vivere civile italiano”. “Delle regole e del rafforzamento delle istituzioni che quelle regole dovrebbero imporre, in Italia non frega niente a nessuno” – ribattevo io.

Sul Secolo XIX di stamattina ho letto l’intervista a un amico, deputato del Pd, persona seria, esponente dell’ala civatiana dei democratici e pertanto non imputabile di intelligenza col nemico e, ancor più, di quelli che non fanno sconti a Berlusconi. “Sento parlare di urgenti riforme istituzionali – ha dichiarato al quotidiano genovese Luca Pastorino – come se fossero le istituzioni a non funzionare e dimenticando l’inefficacia della politica e dei partiti”.

Un’intervista irrilevante per le sorti nazionali, ma una spia indicativa della cultura politica e istituzionale di chi si è opposto radicalmente al Cavaliere in questi ultimi due decenni. Confermando innanzitutto che i politici di oggi non conoscono la storia, da sempre ritenuta la disciplina fondamentale per l’uomo di Stato: basterebbero le vicende dell’Italia repubblicana a dimostrare che le nostre istituzioni hanno funzionato malamente e che andrebbero perciò rafforzate con convinzione. Se poi i politici di oggi frequentassero le librerie, avrebbero avuto modo di sfogliare due recenti volumi, nulla di specialistico peraltro, che dimostrano il ruolo-chiave giocato dalle istituzioni. Niall Ferguson, eminente storico britannico trapiantato negli Stati Uniti, ha dimostrato nel suo Occidente: ascesa e crisi di una civiltà, che tra i capisaldi dell’affermazione dell’Occidente vi è stata proprio l’importanza accordata alle istituzioni, la divisione dei poteri, il ruolo avuto dalle istituzioni nel rafforzamento delle regole. Daron Acemoglu e James Robinson sono giunti a conclusioni simili nel loro volume Perché le nazioni falliscono. “Sono le istituzioni, in particolare le istituzioni politiche ed economiche liberali, a determinare il successo di un Paese. O il suo insuccesso quando mancano” (Danilo Taino, Corriere della Sera).

Il rilancio dell’economia italiana – come dice Pastorino – necessita di misure urgenti ma non è per nulla scontato che quelle misure corrispondano al rifinanziamento della cassa integrazione in deroga o i provvedimenti di fiscalità locale. Istituzioni più forti, regole inscalfibili possono contribuire a rimettere in funzione un sistema Paese stremato da vent’anni d’inconcludenza. Quando alle leggi ad personam del Cavaliere si è pensato solo di contrapporre parole o norme volte a contrastare Silvio Berlusconi e non a rendere più solido, più regolato, più serio il sistema istituzionale nazionale. 

Inutili attese

12 luglio 2013
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In-attesa-di-un-treno-a18412554Se un marziano si fosse sintonizzato stasera sulla 7 e avesse ascoltato l’intervista a In Onda a Pierferdinando Casini si sarebbe probabilmente fatto un’eccellente impressione del politico bolognese: pacato, ironico, gentile, sorridente, ben disposto a parlare e a non sottrarsi al confronto. Ma non sarebbe rimasto colpito solo dal suo amabile carattere: si sarebbe fatto l’idea di trovarsi davanti a un politico di prim’ordine, capace di vedere in prospettiva, di avere una visione. “I contrasti coi montiani sono cose da nulla – ha dichiarato Casini a Luca Telese – perché noi stiamo lavorando ognuno per parte sua ad un grande progetto. Un progetto che faccia rivivere il meglio del popolarismo”.

Per noi che non veniamo da Marte e che siamo avvezzi ai toni gentili e concilianti di Casini, siamo ancor più abituati ai suoi grandi progetti, alle sue ampie e future visioni: a tal punto avveniristiche e allargate, che le sue visioni non si sono mai concretizzate in nulla. Perché in fondo Pierferdi è uno degli interpreti migliori della politica italiana degli ultimi due decenni: idee poche ma confuse, un po’ di tattica ben shakerata con la clientela, col riferimento ai soliti valori, con una vaga eredità democraticocristiana.

Eccolo il grande progetto cui Casini anela da più di un decennio, riassumibile in un’espressione triviale (sconosciuta al nostro bolognese): papparsi i voti di un Pdl imploso. Non essendo in grado di concepire nulla di nuovo, non avendo la caratura del leader, Casini non può aspettarsi di guadagnare voti strappandoli alla concorrenza (si parla di grandi flussi, ovviamente, e non del voto del vostro vicino di casa pensionato o della zia baciapile).  E per questo, da anni, seppur erodendo sempre un po’ di più il suo affezionato bacino elettorale (meridionale, anziano, piccolo borghese) Pierferdi attende al varco il passaggio del cadavere dell’ex alleato, certo che il post-berlusconismo lo vedrà protagonista nel tenere a bada l’elettorato moderato. L’Italia è però un paese troppo instabile e sorprendente per premiare chi è in attesa immobile da più di un decennio della venuta della propria stella.

Il duro amico della libertà/2

8 luglio 2013
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work-the-freedom-to-choose-by-holzer-jenny-mask9  Se la borghese illuminata Finocchiaro è la dura del Pd, il borghese arruffato Civati non può che essere il duro. Perché dietro quell’aria gentile, il linguaggio misurato e giovanile, la buone cause per cui è solito spendersi, sta un politico che si ritiene dica cose scomode, prenda posizioni forti e nette in contrasto con un partito la cui dirigenza è per lo più afasica. E allora ecco Civati che, in contrasto coi maggiorenti, partecipa alle prima Leopolda di Renzi; e poi lo stesso Pippo che – scavalcata la rottamazione – polemizza con Renzi ma anche con la vecchia classe dirigente. E poi Civati che, praticamente solo, non vota la fiducia al governo di coalizione Pd-Pdl-Scelta Civica. Ed è ancora lui, il nostro paladino delle cause giuste e autenticamente di sinistra, che alza la voce (con garbo) per contrastare l’acquisto dei famigerati F35, interpretando la voce del popolo democratico.

Civati, nei giorni scorsi, ha organizzato un raduno (sono stato redarguito da uno dei suoi militanti per aver usato un termine così poco appropriato) in quel di Reggio Emilia – terra rossa per eccellenza ma anche simbolo della buona amministrazione progressista – per lanciare la sua solitaria candidatura alla segreteria del Partito democratico. Ha chiamato l’evento W la libertà e ha radunato tutto un bell’esercito di sedicenti cani sciolti, la “base” di Occupy Pd e i parlamentari di frontiera (Mattiello, Ricchiuti), qualche guru della comunicazione e lo scrittore Paolo Nori (l’intellettuale letterato non manca mai). E poi ha fatto un bel discorsetto finale che, per carità, di sinistra era di sinistra, comunicativo era comunicativo, duro e forte poteva anche sembrarlo. A me, francamente, ha innervosito fin dall’incipit, quando il bel Pippo ha invocato un governo del cambiamento, che non si è voluto fare per i tentennamenti del Pd e per il rifiuto di Beppe Grillo. Non per peccare di realismo, ma quel governo non si è voluto fare perché non si poteva fare. Fine del discorso. Il resto del comizio civatiano è un po’ l’abc di quel che per lui la sinistra dovrebbe fare: lottare contro la criminalità organizzata, difendere ambiente e lavoro, promuovere i diritti civili, sostenere l’eguaglianza, affermare il merito.

Epperò, far politica non significa stilare libri dei sogni (sogni banalotti, per giunta), ma dovrebbe spiegare in quale modo s’intende far diventare quei sogni una realtà. Se no, non restano che parole in libertà. Pensavo a Civati e al suo raduno W la libertà qualche giorno fa leggendo un passo di Federico Chabod a proposito dei mazziniani: “Uomini in cui il culto della libertà era veramente, profondamente religione. Ma uomini, anche, in cui la libertà si riassumeva nei suoi aspetti morali e giuridici, senza che si scendesse molto a vedere quali basi di fatto occorressero perché la libertà di pensare e di agire potesse veramente essere di tutti e per tutti. Sacra la libertà della personalità umana: ma come assicurare le condizioni perché tutti potessero, sul serio, divenire personalità, questo rimaneva ancora sovente oscuro”.

La dura e il duro/1

27 giugno 2013
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2272010155253aPer anni ho pensato che Rosy Bindi fosse la più scadente donna politica del Pd (e della sinistra italiana). Non che mi sbagliassi di molto, ma se non altro la Bindi è l’espressione compiutamente deteriore del democratismo sociale, l’ultima (sbiadita) erede del dossettismo. Rosy si fa interprete di un pensiero: ostile alla società aperta e al mercato, indifferente alle virtù dell’istituzionalismo liberale, per la politica toscana quel che conta è lo Stato, erogatore di quattrini, dispensatore di etiche e di dottrina. Intendiamoci: non che la Bindi sia un fulgido epigono del dossettismo, né che il dossettismo sia la risposta ai problemi di un’Italia in bancarotta e immalinconita. Però, l’assenza di pensiero è forse ancor più tragica della presenza di una visione del mondo scarsamente efficace a comprendere e interpretare il presente. Probabilmente, l’assenza di idee e ideali è il fardello più insostenibile di questi insopportabili e lunghi due decenni di transizione.

Se la Bindi è l’erede del vecchio, l’apprezzatissima Anna Finocchiaro è a mio dire la vestale del nulla. Ditemi voi qualcosa di memorabile che Anna Finocchiaro abbia mai pensato, detto o fatto. La Presidente Finocchiaro in realtà è apprezzatissima tra il popolo della sinistra: sempre al top negli indici di gradimento, candidata a qualsivoglia ruolo di prestigio disponibile, ricercatissima dai media a caccia di dichiarazioni. Probabilmente la Finocchiaro ha svolto egregiamente la professione di magistrato e ha mostrato competenza in materia di giustizia. E, dal suo ingresso in politica, ha svolto diligentemente la carriera raggiungendo i più alti ranghi dell’empireo “democratico”. Eppure, non mi pare che del leader abbia né l’intelligenza organizzativa, né la forza comunicativa e neppure la capacità di elaborazione politica, requisito del quale in Italia si è pensato di poter fare a meno.

La Finocchiaro piace perché è una dura, perché pur essendo signorile ed elegante, non le manda a dire, dimostrando di essere con le parole nemica dei compromessi e dei facili accomodamenti. La siciliana Anna è insomma quel che molti elettori chiedono alla sinistra: di essere innanzitutto intransigente, di non concedere nulla all’avversario, di contrapporsi. E’ la sinistra dell’antiberlusconismo metafisico in abiti borghesi per la quale l’Italia è stata rovinata dal capitalismo sguaiato e predatorio del Cavaliere brianzolo (e del suo padrino Craxi) che avrebbe minato le basi di uno Stato e di un sistema del quale andare fieri. E’ la sinistra che alla proposta preferisce la critica, la denuncia, l’indignazione (ora approdata su altre sponde). 

Pensavo ad Anna Finocchiaro, la dura del Pd, leggendo il frequentatissimo e acclamatissimo blog di Pippo Civati, il quale, acuto interprete dei tempi odierni così rozzamente ostili alla forma partito, ha pensato bene di rivolgere la proprio durezza tanto all’establishment, alle correnti, ai maggiorenti del suo partito quanto all’ex opposizione destrorsa. (continua)

Giuliano e Bashar

24 giugno 2013
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Giuliano Delnevo lo vedevo spesso. Non che si siano mai scambiate due parole o che ci si sia mai salutati, ma uno come lui difficilmente passava inosservato: abiti tradizionali arabi, barba e copricapo d’ordinanza. Benché il Centro storico di Genova nel quale entrambi risedevamo sia un dedalo di stranezze, la sua esibizione di appartenenza all’Islam radicale suscitava in me un certo sconcerto. Ancor più perché  Giuliano Delnevo non dimostrava molto più dei suoi 24 anni, col suo viso tardo adolescenziale, gli occhi chiari, la barba lunga poco virile.

Provoca angoscia l’aver incrociato più volte al giorno un guerrigliero della jihad, imbottito di una rabbia che in Siria lo ha portato a battersi contro Assad in nome dell’Islam più fanatico. E non mi sentirò tranquillo quando incrocerò di nuovo gli amici di Giuliano Ibraim, quelli che – come lui – sfoggiano il loro estremismo nelle strade di una città dell’occidentale Europa. Ma ancor più angosciante è il pensiero che l’Occidente sia disposto a rifornire di armi i ribelli antigovernativi. Perché tra il macellaio Assad e l’invasato Giuliano, io non ho dubbi: meglio un autocrate oldstyle che un sultanato islamico a Damasco.

ma sì, toglieteci anche la fiera, e poi lasciateci morire in pace

6 dicembre 2012
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Genoa_Palasport_ceilingC’è stato un tempo in cui si credeva davvero allo sviluppo della città. Quando, alla fine degli anni Cinquanta, un gigantesco riempimento a mare fu destinato ad ospitare il nuovo quartiere fieristico di Genova, dotandolo di un moderno palasport e di un accesso a mare, si pensava che anche la Superba potesse dar vita a quelle grandi manifestazioni commerciali che accompagnavano l’impetuoso boom economico italiano. E che, con la sua fiera, potesse rivaleggiare con le altre grandi città del nord già in possesso di simili aree espositive.

E’ di questi giorni la notizia che Riccardo Garrone, proprietario della Sampdoria, da anni alla ricerca di un’area adatta ad ospitare lo stadio della sua squadra, abbia avanzato la proposta di realizzare il nuovo, mastodontico impianto sportivo nel quartiere fieristico, dove oggi sorge il cadente e sottutilizzato palazzetto dello sport. L’opinione pubblica cittadina si è come di consueto divisa tra il partito dei pro-stadio, animato dai soliti entusiasti di tutto ciò che profuma di nuovo, di tutto ciò che potrebbe portare lavoro e il partito degli anti-stadio, formato dai soliti conservatori a priori (che in città non scarseggiano di certo), da chi è preoccupato per la mobilità dell’aerea e da chi vorrebbe salvare il palasport, opera di una prestigiosa equipe di ingegneri e architetti, tra le più grandi ed antiche tensostrutture d’Europa.

Come sempre, il partito meno frequentato è quello dell’analisi e del ragionamento. Non che i paladini del nuovo e i sostenitori del vecchio non abbiano, entrambi, le loro ragioni. E’ vero che Genova potrebbe aver bisogno di un nuovo stadio, è vero che la sua costruzione in un’area semi-centrale (e urbanisticamente non troppo fortunata) potrebbe essere preferibile ad un suo confinamento nell’estrema periferia cittadina; non è men vero che il palazzetto dello sport, seppur mal preso (ma perfettamente recuperabile), è divenuto ormai un simbolo architettonico della città; ed è certo vero che uno stadio, in un’area già densamente trafficata, qualche problema di congestione potrebbe causarlo.

E tuttavia, mi pare che nel dibattito ci si sia dimenticati di un elemento non del tutto secondario: la fiera di Genova non fu concepita per occupare uno spazio vuoto, fu pensata per ospitare manifestazioni che contribuissero allo sviluppo e alla ricchezza della città. Smantellare una parte di quell’area espositiva (il palazzo dello sport, altrimenti detto padiglione s, un paio di altre strutture che significano complessivamente qualche decina di migliaia di metri) corrisponderebbe a ridimensionare notevolmente la fiera, a farne un quartiere sempre più ridotto, destinato ad ospitare manifestazioni da provincia ed esposizioni di terz’ordine.

Non è forse vero che la costruzione di un nuovo stadio alla fiera significherebbe compromettere definitivamente la vocazione commerciale ed espositiva della città? Genova è pronta a rinunciare – dopo il petrolio, le assicurazioni, la chimica, l’industria saccarifera, dopo mille altre cose – anche alla sua fiera? Non traggano in inganno le dichiarazioni di Sara Armella, presidente dell’Ente Fiera (quella che, dopo una disastrosa edizione dell’ultimo Salone Nautico – frequentata dal 22% in meno di visitatori – ha dichiarato che non si era certo trattato di un flop), da subito entusiasta per il progetto di nuovo stadio: d’altra parte la cessione di una porzione consistente dell’area fieristica permetterebbe forse di far dimenticare la drammatica insipienza gestionale degli amministratori dell’Ente Fiera, i quali, negli anni, si son fatti soffiar via gran parte delle più importanti manifestazioni espositive una volta ospitate a Genova, hanno prodotto debiti e sono riusciti persino a compromettere il fiore all’occhiello della fiera di Genova, quel Salone nautico (tra i primi al mondo) forse destinato a trovar sede altrove. Il nuovo stadio farebbe comodo a molti: in primis, ad un Ente Fiera che cederebbe così una parte dello spazio espositivo; che – abbattendolo – non dovrebbe perciò recuperare il fascinoso e fatiscente palazzetto dello sport; che, nella piccola area espositiva rimasta, potrebbe ospitare quelle fiere di provincia di facile realizzazione, venendo così meno al proprio compito di concepire nuove manifestazioni fieristiche, di attirare nuovi espositori, di darsi da fare con gli investimenti. Il nuovo stadio farebbe poi comodo al Sindaco, desideroso di lasciare un segno tangibile del suo passaggio su questa terra; alle amministrazioni locali (Comune, Regione, Provincia) che dell’Ente Fiera sono azionisti; alla Sampdoria; ai soliti entusiasti delle novità. Ma chi ci perderebbe, nel consueto sonno dell’opinione pubblica cittadina, sarebbe Genova, che si vedrebbe sfilar via l’ennesima attività commerciale, uno degli ultimi segni rimasti di quel passato in cui ancora si immaginava lo sviluppo futuro della città. 

Genovagaza

25 novembre 2012
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A riprova della totale sovraesposizione mediatica ed emotiva del conflitto israelo-palestinese di cui ha scritto, con lucidità e intelligenza, l’amico flaneurotic, il consueto bilancio-video settimanale del sindaco di Genova Marco Doria dedicato alla situazione a Gaza invece che alla sua (disastrosa) gestione di una città morente.

Il compagno Obama e le Primarie del centrosinistra

25 novembre 2012
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Anni fa mi capitava di acquistare abbastanza frequentemente Diorama, la rivista diretta da Marco Tarchi, colui che era stato il più brillante esponente italiano della nouvelle droite. Il periodico – raffinato, intelligente, anticonformista – era votato, tra l’altro, alla denuncia della sistematica americanizzazione del mondo. E lo faceva con rigore e integrità, mettendo a nudo contraddizioni e cedimenti di chi, ad esempio, detestava il sistema economico a stelle e strisce o guardava con orrore alla vita politica di Washington, e, al contempo, non si perdeva l’uscita di una pellicola americana, preferiva i jeans e lo stile comodo all’eleganza poco confortevole di matrice europea, adorava il rock e le culture alternative. Tra i principali bersagli di Diorama, quella Sinistra radicale radunata attorno al Manifesto che non perdeva occasione di scagliarsi contro i Reagan, i Bush, i Kissinger, la finanza di Wall Street e lo spirito capitalistico della frontiera, salvo poi andare in estasi per la Apple di Steve Jobs, per l’etica liberal di San Francisco e Seattle, per le filosofie orientali in salsa californiana, per le serie tv d’importazione. Non senza ragione, Tarchi e i suoi intendevano rilevare come il trionfo dei valori contro culturali, la rilassatezza dei costumi, la spettacolarizzazione del cinema e del sistema informativo fossero il prodotto di quella stessa etica liberal-capitalistica statunitense che rendeva possibile l’onnipotenza delle corporations e che segnava una vita politica così distante da quella iper-ideologizzata di stampo europeo e l’affermazione di uno Stato forte in materia militare ma debole o indifferente quando si trattava di Welfare e politica economica.

Le Primarie del centro-sinistra mi hanno riportato alla mente l’intuizione di Tarchi. La rielezione del presidente Obama ha ben dimostrato com’egli sia un’icona della Sinistra internazionale e ancor più di quella italiana, culturalmente provinciale e tendenzialmente succube dei modelli stranieri (come provinciale e superficialmente esterofilo è il nostro paese per intero, s’intende). Barack non rappresenta la stella polare solo per quel Renzi che si fa vedere ovunque con l’iphone dei democrats americani, ma è anche punto di riferimento per Vendola e, soprattutto, lo è per quel popolo della Sinistra mobilitatasi per il governatore della Puglia e per il segretario del Pd Bersani. Tuttavia, se Obama concorresse alle primarie del centro-sinistra italiano, non lo farebbe certo in nome dei valori (confusi) di Stefano Fassina o delle narrazioni melò-radicali di Sel: un Barack italiano sarebbe probabilmente più a destra di Renzi o, comunque, non più a sinistra di lui. E se la cena del sindaco di Firenze con gli uomini dell’alta finanza italiana ha scandalizzato gli spiriti puri dei nostri progressisti, perché non dovrebbe scandalizzarli il fatto che Obama scelse uomini di Wall Street a guidare le politiche economiche a stelle strisce? E per quale ragione il mediatico, telegenico e carismatico presidente americano dovrebbe intenerire laddove il mediatico telegenico e carismatico Renzi viene da noi immediatamente paragonato a Berlusconi solo perché in grado di bucare lo schermo? E se di Renzi si enfatizza il ruolo giocato da Giorgio Gori quale spin-doctor della campagna per le Primarie, che dire allora di Obama che ha alle spalle ultra pagati professionisti esperti di marketing mediatico?

Insomma, si dia pace l’osannante popolo della Sinistra italiana: il presidente Barack Obama non è né un social-democratico alla Bersani (ammesso che si riesca a capire cosa Bersani sia), né un fautore della decrescita felice alla Vendola. Rappresenta, semmai, l’ala sinistra di una democrazia liberale per nulla disposta a mettere in discussione non solo i diritti civili ma anche un sistema economico basato sulla libera concorrenza, sulla libertà d’impresa, sull’importanza accordata al settore privato. Barack Obama, così come il suo predecessore Clinton, sono molto più simili a Tony Blair che non a François Mitterand o a Sandro Pertini, omaggiato dal segretario del Pd nella sua natia Stella. Ragione per la quale, se Obama ha libera cittadinanza nella casa (e nei cuori) della Sinistra, non si capisce per quale ragione non dovrebbero averla quei liberal alla Ichino, alla Morando, alla Salvati, alla Renzi che i custodi dell’ortodossia post-comunista vorrebbero confinati nelle praterie della Destra.